Alfredo Gargiulo «Gabriele D’Annunzio» (1941)

Recensione a Alfredo Gargiulo, Gabriele D’Annunzio (Firenze, Sansoni, 1941) in «Primato», a. II, n. 12, giugno 1941, pp. 13-14.

Alfredo Gargiulo «Gabriele D’Annunzio»

La ristampa del saggio di Gargiulo su D’Annunzio (1912) ci invita a riesaminare il contributo del critico alla posizione e allo sviluppo del problema dannunziano. Se adesso, dopo tante prove e controprove, ricerchiamo i risultati di tutta la critica dannunziana, vediamo che, sia pure spostato per interessi diversi, il centro d’attenzione è rimasto lo stesso, sempre quel senso nuovo di natura, il momento alcionico solo momento assicurato di alta poesia: oltre la concordia sul cambiamento del Notturno, sull’approfondimento di quel gusto profetico che di solito si perverte appena tocca la pagina. Si accerta quel potere di divinare gli oggetti della natura, di istinto invincibile (e cantò l’usignolo ebro furente) che non si estende, che non si nutrisce se non apparentemente di cultura, quel vigore indiscriminato religioso che la critica dovrà sempre piú isolare e approfondire. La prima critica corse a individuare i motivi della poesia dannunziana e toccò rapidamente il punto della sensualità, smontò presto la soprastruttura volontaristica, arrivò al giudizio di Serra: «una perfezione che suona falso». Gargiulo con un particolare schema descrittivo e con una raziocinante meticolosità giunse alla distinzione particolare delle parti politiche e di quelle letterarie dell’opera, isolò il Canto novo, le prose realistiche, l’Alcyone. Da quel momento in poi la critica sviluppò lo studio di tutto D’Annunzio, accentuò il suo pansensualismo, cercò le sue coordinate storiche, la sua poetica, esaminò le sue opere postbelliche, scoprí addirittura un poeta segreto, piú intimo, piú umano, riportandolo poi lentamente nel cerchio della sua poeticità piú sicura, attuazione piú attenta della sua originale vocazione nella musica verbale. Anche a questa ultima ricerca di un nuovo D’Annunzio contribuí Gargiulo che tra i primi fermò una caratteristica del Notturno: «abbiamo riconosciuto nell’opera una maggiore umanità del poeta, in quanto approfondimento dei suoi genuini motivi e vittoria sul vizio capitale, la superumanità imaginifica».

Ma ci sembra che i tre saggi aggiunti al libro primitivo e che già conoscevamo dalla «Ronda» e dalla «Nuova Antologia» non costituiscano un arricchimento sostanziale del primo lavoro compatto: in essi un Gargiulo impegnato con la poesia nuova ha sensibilmente cambiato non tanto i suoi modi critici quanto la sua fede critica e una piú pronta accettazione ha preso il posto della rigida difesa della poesia come incarnazione di motivi generali dell’animo. Ma anche nel piú recente saggio In morte del poeta, sotto la novità del linguaggio sempre però piú raziocinante che sensibile, permane il vecchio disegno critico che stabilisce dunque validamente le relazioni tra Gargiulo e D’Annunzio. E ciò inevitabilmente perché ai nostri occhi lo sviluppo di Gargiulo è cosí poco nucleare che se la scrittura «cosí trita, esplicativa, dimessa» (come la vede adesso l’autore) poteva farsi piú controllata, piú liricheggiante, l’originale presa di posizione non poteva rinnovarsi: e, diremo positivamente, non doveva rinnovarsi.

Il libro è svolto con documentata meticolosità, secondo molteplici esempi, specialmente allo scopo di restringere una volta per sempre l’attività dannunziana al gusto o realistico o sensuale dell’animalesco, dell’oggetto, non dell’umano che in realtà appare solo nel suo lato piú istintivo.

II punto che si può sviluppare sulla vecchia documentazione è l’apporto di questa tendenza veristica ad una poetica della musica verbale, la trasformazione di un interesse veristico in un interesse lirico alla creazione di un organismo in cui il peso sensuale dell’oggetto si alleggerisce in un’onda suggestiva, scatenata dal valore musicale della parola. Resta cioè da spiegare meglio la relazione fra il primo amore puntuale per le cose e la violenta esuberanza verbale in cui oggetti sono trasportati senza rispetto al loro particolare valore. II libro segue poi cronologicamente lo svolgimento della vita dannunziana e della sua opera: e anche ciò ha il valore di un primo esame esauriente che voglia accertare il nesso fra gli avvenimenti, le reazioni dell’uomo, le sue idee politiche, la sua poesia, studio che è tanto meno deterministico quanto piú insiste sulla mediazione essenziale della poetica, delle intenzioni poetiche in cui tutto ciò che è pura materia vissuta o sognata si trasforma sotto il segno della personalità in volontà, in volontà preformante e tra questa e la realtà artistica è il vero confronto che serve nella critica. Mancando questo punto essenziale, il legame tra vita e poesia mantiene una sua primitiva ingenuità. Gargiulo aveva però capito (e tutti gli studiosi di D’Annunzio hanno piú o meno seguito lo schema cronologico) che tale metodo di studio era particolarmente necessario di fronte ad una natura cosí profondamente monotona, ma cosí esteriormente suscettibile di cambiamenti come quella di D’Annunzio. Le sue idee non stanno mai ferme, il suo gusto smania per modelli successivamente diversi e, se rimane seria la forza che sostiene quei movimenti, una totale mancanza di vero pensiero rende le vicende della personalità estremamente transitorie e molteplici. Ma certo a seguire l’auscultazione gargiuliana («Qui si riesce a veder qualcosa. Pure, si sente che il metro è ancora estrinseco») si guadagna, piú che nel tentativo sintetico di Borgese, la possibilità di non dover ripercorrere per proprio conto le opere voltate e rivoltate anche se spesso con scarso risultato critico. Il critico pesa e soppesa specialmente le poesie in vista di un disegno di stanchezze, riprese, stati d’indifferenza e di sterilità, prova e riprova una tesi in fondo facilmente esemplificabile. Raramente un critico ha potuto imporre la sua preferenza con tanto consenso e con tanta fortuna: e ciò è dovuto piú allo schema intelligente che all’esame minuto che non costruisce la scoperta, ma la esemplifica con una certa inconcludenza.

Se prendiamo ad esempio le pagine sul Piacere l’osservazione generale bastava, mentre l’esame stilistico-psicologico non aggiunge molto e rivela un fondamentale vizio comune a molti critici dannunziani: il confronto dei personaggi, delle situazioni con idee generali dell’uomo e della realtà. La falsità dannunziana non deriva da una precisa genericità in questo o quel caso e il divario va ricercato non fra il concreto in generale e l’astrattezza di quel particolare, ma nel seno della intenzione dannunziana stessa. Se «l’arte ha l’obbligo proprio di spiegare, cioè di raggiungere la chiarezza», perché parlare allora di sentimenti generali non raggiunti dal D’Annunzio? Piú vera invece è l’incoerenza tra la figura enunciata e quella realizzata: «non bastano (alcuni momenti sensuali) a giustificare per donna Maria tutto quello che si dice delle sue angeliche virtú e della sua quasi sovrumana anima: resta nascosta e deve supporsi, la totalità della sua persona, che non ha alcuna rappresentazione concreta, ed è invece solamente enunciata con piú alti e nobili aggettivi». Questa è la vera tabe dannunziana, questo è l’estetismo, il male delle parole grosse dietro le quali si nasconde la miseria morale o l’avventura incontrollata.

Altro motivo importante del libro era la distinzione della sensualità visiva del D’Annunzio da una sensualità che possa creare delle persone artistiche. Il che non priva tanto di valore quanto dice sull’argomento Flora, quanto inviterebbe a privare D’Annunzio di una qualità totale di esuberanza che invece non manca mai anche se rimane libera dove sensualità e purezza lirica possono coincidere, nel paesaggio. La natura prevalentemente ragionativa di Gargiulo lo porta a puntare eccessivamente sulla nascita delle situazioni poetiche, a procedere per problemi, su prefissati limiti ed estremi della natura del poeta e a trarre troppo rigidamente le conseguenze del disegno generale in ogni caso di riuscita artistica: «mi piace riferire questa Tristezza d’una notte di primavera, in cui si vede che il D’Annunzio arriva ad esprimere per un momento uno stato di dolore, ma riflettendolo fuori di sé, in un paesaggio».

Astrattamente si potrebbe ridurre questo voluminoso lavoro a poche pagine dense (in parte l’ha fatto il Gargiulo stesso nel saggio In morte del poeta), ma si perderebbe con ciò la prima pedantesca, minuta testimonianza critica su D’Annunzio, la fatica raziocinante che avrebbe dovuto risparmiare quella dei critici successivi. E fra queste ulteriori fatiche era pur sempre la piú coerente e precisa. Perché allora tutti gli studiosi di D’Annunzio hanno voluto riprendere il pesante materiale e ricostruirlo anche in quei particolari ormai pacifici? È che in tutti permane un’oscura insoddisfazione, un desiderio di dar vita a tanta parte di luce che pare trascurata da un disegno troppo rigido, di ritrovare piú concretamente la personalità dannunziana. Sulla base dell’assicurazione di Gargiulo (lirico paesista della natura nuova), la critica dannunziana deve ancora piú precisamente affrontare lo studio della volontà artistica del D’Annunzio in relazione alla sua salda prima parola, meno ricca di quanto si crede, ma originariamente genuina e sostanziosa.